Responsabilità civile e penale schianto albero

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Ringrazio l’ADAF per avermi voluto coinvolgere in questa iniziativa che mi dà l’occasione di inoltrarmi su un campo che, a dispetto di quello che può apparire, effettivamente presenta, anche per il giurista, profili di notevole interesse e quindi anche stringente attualità.

Devo dire che dopo aver preso visione dello schema di relazione dell’Avv. Agnoletto, che mi ha preceduto, per evitare delle sovrapposizioni mi sono visto costretto a scandagliare un aspetto un po’ particolare della questione, favorito forse dal fatto di essere abitante di Cremona, città nella quale qualche anno fa si è verificata una querelle giudiziaria che ha interessato non poco l’opinione pubblica proprio in relazione a vicende che non so quanti di voi conoscano: si tratta della vicenda del giardino pubblico che si trova nel pieno centro città, dove c’è la galleria.

Si tratta di un giardino storico che, interessato da problemi relativi alla caduta di alberi, vide un intervento del Comune per una certa sistemazione che si scontrò però con certe problematiche che affronteremo dopo.

Mi sono trovato dunque nella necessità di cambiare l’obbiettivo e anche il titolo della relazione perché mi è sembrato forse più interessante, dopo la brillante, precisa e puntuale relazione dell’Avvocato Agnoletto, intitolare la mia, piuttosto, “manutenzione del verde pubblico tra tutela della pubblica incolumità e tutela dell’ambiente”, facendo quindi riferimento a questi due aspetti che non sempre vengono sentiti e percepiti come consonanti.

Questo in un quadro in cui la maturazione della società - alla quale noi tutti assistiamo - comporta o ha comportato l’emersione di problemi sempre nuovi specialmente per chi, nella veste di amministratore pubblico, ha la funzione di governare o regolare questi processi di maturazione;

problemi afferenti a interessi che, se non sono certo originali, ora, nell’attuale situazione, sono avvertiti in modo particolarmente diffuso e impongono l’adozione di scale di valori e di scelte e il contemperamento di esigenze e, quindi, di aspettative di diritti, che sono diritti di natura sia pubblica sia privata.

Come in altri settori dell’amministrazione, anche nella gestione del verde pubblico, che da sempre è stato visto come un fattore di ornamento ed abbellimento delle nostre città ed un tipico campo di espressione della discrezionalità amministrativa, da non pochi anni si è affac-ciato un imperativo:

anche l’Ente pubblico che gestisce questo patrimonio, in quella sua discre-zionale attività di cura di tale patrimonio non deve ignorare il fondamentale principio della incolumità personale dei cittadini.

Prima, e sto parlando di alcuni decenni fa, era comune l’affermazione secondo cui l’atti-vità della Pubblica Amministrazione era insindacabile e che, a fronte di questa di discrezionalità della pubblica amministrazione, non esistesse diritto del cittadino che lo legittimasse a pre-tendere che questa attività si svolgesse in modo da non arrecargli danno. Ma ormai queste posi-zioni appartengono al passato e ora è patrimonio comune - non solo del giurista ma anche del cittadino - affermare che anche l’attività delle Pubbliche Amministrazioni trova il suo limite in quel generale principio che è stato appena adesso richiamato del “neminem laedere”, cioè del non far male a nessuno, in sintesi della doverosità di un agire che sia tale da non arrecare pregiudizi alle persone ed alle cose. Qualora questo imperativo sia violato, viene così definitivamente affermata l’idea che la Pubblica Amministrazione deve pagare i danni che essa, con il suo operato, cagiona.

Questa affermazione, nello specifico settore della gestione del patrimonio verde, che è quello di cui ci occupiamo, si è incanalata poi verso percorsi sempre più rigorosi che hanno finito per approdare a forme di responsabilità civile che tutelano il privato in modo particolarmente intenso e, come abbiamo visto, finiscono per dare corpo, in capo all’Ente Pubblico, a delle vere e proprie ipotesi di responsabilità senza colpa. Qui intendo riferirmi all’ipotesi dell’art 2051 C.C., già richiamato e scandagliato, nella quale la responsabilità del soggetto che è custode della cosa - si pensi in primo luogo al Comune che, in quanto proprietario, è custode di un albero o di un viale alberato o di un giardino o di un parco - è subordinata al solo fatto che dalla cosa stessa sia derivato un danno al cittadino, fatto salvo che l’Amministrazione provi il caso fortuito.

Sul caso fortuito è già stato detto l’essenziale e non voglio certo ripetermi, ma cogliendo lo spunto che mi è stato dato dal relatore precedente, devo fare cenno a quei contemperamenti che, nella giurisprudenza della Suprema Corte, si rinvengono come limite all’operare della responsabilità per custodia nei casi in cui il custode sia la Pubblica Amministrazione. Infatti la Cassazione, pur affermando che il custode ha il dovere di accertarsi se il bene oggetto della sua custodia, quindi della sua vigilanza, si trovi in situazione tale - per il suo connaturato dinamismo connaturato o per lo sviluppo di un agente dannoso in esso insorto - da cagionare danni a terzi e, in caso positivo, di adottare tempestivamente le cautele idonee ad evitare la degenerazione della situazione da pericolosa a dannosa, ha cercato di contemperare il rigore di questa affermazione con questo limite. Nel caso in cui il danno derivi da beni demaniali sui quali è esercitato un uso ordinario generale e diretto da parte dei cittadini, come ad esempio il demanio marittimo, fluviale, lacuale e stradale, e pertanto anche il verde pubblico, si esclude la presunzione di responsabilità laddove l’estensione del bene demaniale renda praticamente

impossibile l’esercizio di un continuo ed efficace controllo atto a prevenire l’insorgenza di pericoli a terzi. La presunzione di responsabilità nei confronti della Pubblica Amministrazione è pienamente operante, invece, in relazione ai beni demaniali che per la loro estensione limitata consentono un adeguata attività di vigilanza.

Per restare nel nostro campo sarà difficile sostenere la responsabilità del custode ai sensi dell’art 2051 Codice Civile in quei casi in cui il danno derivi dalla caduta di un albero nel bosco comunale di elevata estensione, ma non credo siano questi i problemi più comuni per gli amministratori. Infatti è evidente come quella precisazione che ho appena detto non sia assolutamente tranquillizzante per il Comune proprio nella gestione di quelle aree verdi aperte in città e paesi che sono oggetto di una vera e propria gestione da parte dell’Ente Pubblico.

È infatti fin troppo facile osservare che, se un’amministrazione si dota di aree verdi e le adibisce ad aree pubbliche o a giardino, se è in grado di abbellire le strade con cortine alberate, essa ragionevolmente deve disporre anche di un adeguato servizio di manutenzione, che sia tale da assicurare una vigilanza sulle condizioni delle alberature. Se questo servizio poi esiste, come penso esista nella totalità delle amministrazioni, sarà ben difficile sostenere che questo bene (che può essere il parco, il giardino o il viale) fosse di per sé tale da non poter essere custodito e vigilato.

Però conosciamo tutti le difficoltà, soprattutto economiche, che si frappongono ad una costante e capillare opera di verifica dello stato di salute delle migliaia di esemplari che a volte formano il verde pubblico di immediata fruibilità, tanto che spesso non è possibile controllare tempestivamente i segnali di un cedimento di qualcuna di quelle essenze o i segnali di una malattia tale da far presagire la mancata resistenza ad uno di quegli agenti atmosferici di cui si è parlato nella precedente relazione. Se a questo aggiungiamo anche la considerazione della gravità di quegli effetti che a volte possono derivare da questi eventi, dal crollo o schianto dell’albero, dalla caduta della branca e la conseguente esposizione dell’operatore, del dirigente o dell’amministrazione alle responsabilità anche penali in ordine ai delitti, sia pure colposi, in danno della vita o della incolumità delle persone, si comprende peraltro l’insorgere della tentazione di procedere spesso ad interventi radicali che eliminino una volta per tutte la possibile fonte dei problemi.

È però noto a tutti, l’abbiamo sentito anche in questa sede, che questo modo di procedere provoca un altro tipo di problemi, che sono le proteste di gruppi più o meno organizzati di cittadini, proteste alle quali seguono polemiche che spesso arrivano a prendere la via delle procure della repubblica sfociando così, a volte, in procedimenti penali a carico di amministratori la cui colpa, forse, è solo quella di aver operato per un eccesso, giustificato o meno, di prudenza.

Questa annotazione mi consente di introdurre sulla scena un altro fattore protagonista che, segnale proprio di questi tempi, complica complessivamente il rapporto tra l’amministrazione ed il verde pubblico, fattore che è costituito dal cosiddetto diritto all’ambiente o meglio è costituito dalla tutela civile e penale di questo diritto.

Schematizzando grossolanamente i termini della questione, potremmo mettere in bocca all’amministratore o al dirigente del settore questo dilemma: se non taglio rischio di essere responsabile per i danni cagionati dagli alberi a chi ci passa sotto, se taglio rischio di essere per-seguito penalmente o civilmente per danno ambientale. Non penso certamente che la situazione si ponga in termini così drammatici, perché oso sperare che una condotta amministrativa attenta, scrupolosa e rispondente alle leggi e alle regole della buona tecnica sia facilmente in grado di conciliare entrambe le esigenze di cui ho parlato e che, per postulato, non potrebbero certo definirsi inconciliabili.

Al riguardo voglio partire proprio da quel vero e proprio pronunciamento che è contenuto nella legge istitutiva del Ministero dell’ambiente e, in particolare, nell’art. 18 (Legge 8 luglio 1986, n. 349) laddove si stabilisce che “qualunque fatto doloso o colposo in violazione delle disposizioni di legge o provvedimenti adottati in base alla legge che comprometta l’ambiente ad esso arrecando danno deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte obbliga l’autore del danno al risarcimento nei confronti dello stato, prevede anche l’azione di risarcimento del danno ambientale anche se esercitata in sede penale promosso dallo stato nonché dagli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo”. Questa norma, che fonda il danno ambientale (per aversi danno ambientale è sufficiente l’alterazione, o il deterioramento dell’ambiente che si persegue, ad esempio, anche attraverso interventi sul patrimonio verde), ha per il vero rintracciato un principio che era già presente nell’ordinamento (penso agli artt. 9 e 32 della Costituzione) e in base al quale si possono affermare i seguenti punti immediatamente rilevanti ai fini che qui ci interessano:

  • il bene ambiente è un bene giuridico protetto come bene pubblico ed è un elemento determinante della qualità della vita;
  • la sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche od estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un ambito naturale in cui l’uomo interagisce con il bene necessario per la collettività;
  • la lesione del bene configura, per gli enti territoriali, un danno ingiusto risarcibile.

Quindi la prospettiva di arrecare un danno ambientale è quella che, in prima approssimazione, potrebbe reputarsi frenante rispetto ad interventi decisi di manutenzione del verde indirizzati nel segno di un azzeramento o di un drastico ridimensionamento di situazioni di potenziale pericolo per l’incolumità pubblica: la scelta di tagliare tutto, infatti, ben può essere frenata dalla prospettiva di arrecare un danno ambientale del quale si potrebbe essere chiamati a rispondere. Però è opportuno precisare che, perché si verifichi un danno ambientale nel senso appena detto, non è sufficiente l’alterazione o la distruzione dell’ambiente naturale, ma occorre anche l’elemento soggettivo intenzionale. Occorre cioè che la condotta sia dolosa e/o colposa ed in particolare, sotto l’aspetto della colpa, che sia qualificata dalla violazione delle disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base alla legge.

Capirete allora che diventa essenziale perché vi sia un danno ambientale per il quale l’amministratore potrebbe essere chiamato a rispondere che l’amministratore stesso abbia violato disposizioni di legge o provvedimenti adottati in base alla legge.

E questo accertamento della violazione della legge diventa poi particolarmente rilevante anche perché la violazione di talune di quelle disposizioni di legge può comportare, altresì, una responsabilità penale dell’amministratore o del dirigente; si materializza così un altro degli inquietanti elementi che danno sostanza a quel dilemma di cui ho parlato prima.

L’attenzione deve andare al Decreto Legislativo 29 ottobre 1999 n. 490 che è il testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali che, come tutti sanno, prevede per taluni beni una serie di vincoli. Di questi vincoli alcuni riguardano proprio i parchi cittadini o i giardini storici che sono vincolati sulla base di provvedimenti ministeriali anche risalenti nel tempo. Richiamo al riguardo il caso, citato in apertura, del giardino nel Comune di Cremona: questo è proprio uno di quei parchi cittadini definiti giardini storici e tutelati dal ministero dell’ambiente. Poi vi sono altri parchi e giardini per i quali è prevista (art. 139 T.U.), in ragione della loro non comune bellezza, la possibilità che siano inseriti in appositi elenchi regionali e quindi oggetto di dichiarazione regionale di interesse pubblico.

Ebbene, ai sensi dell’art. 151 i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di detti beni ambientali e quindi anche i Comuni non possono distruggere tali beni né introdurvi modificazioni, che rechino pregiudizio a quel loro esteriore aspetto che è oggetto di protezione e hanno l'obbligo di sottoporre alla regione i progetti delle opere di qualunque genere che intendano eseguire, al fine di ottenerne la preventiva autorizzazione. Viene fatta salva solo l’eventualità che si tratti di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria (oltre che di consolidamento statico e di restauro conservativo) che però non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici (art. 152).

Ai sensi dell’art. 163, poi, chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni ambientali è punito con le pene previste dall'art. 20 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (e cioè, in allora, l'ammenda fino a lire 20 milioni …).

Dunque nel caso in cui il parco o giardino sia tutelato è ammessa solo la manutenzione ordinaria e straordinaria nella quale, però, non pare rientrino opere di più drastico impatto come il taglio degli alberi o comunque interventi che possano equivalere alla morte degli alberi stessi; non si verte infatti in un intervento di manutenzione laddove con lo stesso venga alterato lo stato dei luoghi (Cassazione penale, sez. III, 23 gennaio 2003, Haggiag, m. 224.175).

Per dare corso a questi più drastici interventi è dunque necessaria l’autorizzazione che è autorizzazione regionale, in Lombardia delegata allo stesso Comune. Non sembri questo un’inutile giro di carte nel caso in cui sia ancora il Comune a decidere e a eseguire l’intervento. Nel momento in cui concede l’autorizzazione, infatti, il funzionario comunale agisce come delegato regionale e, inoltre, deve ricordarsi che l’autorizzazione, nel termine di 60 giorni, è suscettibile di essere annullata dalla Sovrintendenza alla quale è trasmessa.

Laddove gli interventi siano fatti senza autorizzazione – o laddove questa sia annullata – si sarà dunque in presenza di un intervento non autorizzato su bene vincolato il che comporterà non solo la sanzione penale ma anche, ricorrendone i presupposti, la responsabilità per danno ambientale.

Viceversa, laddove l’autorizzazione sia stata ottenuta, nessuna responsabilità penale e nessun danno ambientale potrà essere ipotizzato e potranno dunque essere compiuti quegli interventi che, in relazione anche al ciclo vegetativo e allo stato di salute delle piante, siano reputati idonei a prevenire pericolo per la pubblica incolumità. L’apparente inconciliabilità tra tutela della incolumità e tutela dell’ambiente

comincia a non apparire più tale.

Sempre sotto il profilo della responsabilità penale merita anche di essere menzionato l’art. 734 del codice penale che punisce, con l’ammenda da 1.032 a 6.197 euro, chiunque mediante costruzioni, demolizioni o in qualsiasi altro modo distrugga o alteri le bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell’autorità; anche in questo caso l’autorizzazione evita che sia concretizzata la fattispecie penale.

Dopo queste prime risposte occorre riconoscere che sono anche altre le modalità con le quali la tutela dell’ambiente e la tutela dell’incolumità pubblica possono interagire in termini critici. Così si può certamente verificare l’ipotesi in cui sia urgente prendere dei provvedimenti necessari per la salvaguardia dell’incolumità pubblica dei cittadini ed in tempi compatibili con il rispetto delle procedure volte ad ottenere le necessarie autorizzazioni. Anche in questi casi l’ordinamento riconosce l’esistenza degli opportuni strumenti per la risoluzione di questo possibile conflitto. Infatti se vi è una vera urgenza e se l’intervento è mirato specificamente a risolvere la situazione di pericolo quello strumento è rappresentato dall’ordinanza contingibile e urgente che il sindaco, quale ufficiale del governo, può emettere ai sensi dell’art 54 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.

Qui ho riportato la prima sentenza del TAR che ho trovato, è la sentenza del Tar della Calabria del 2003 che ha riconosciuto la legittimità dell’ordinanza contingibile urgente che ha disposto l’abbattimento di otto alberi di alto fusto con lo scopo di prevenire danni gravi e irreparabili e l’incolumità dei frequentatori dell’edificio scolastico prospiciente il giardino del ricorrente per effetto di cadute accidentali di alberi o parti di essi. Questa ragione, cioè quella di evitare un danno alla persona, è stata reputata più che sufficiente a giustificare l’esercizio del potere di ordinanza.

Su un altro versante, che è più propriamente penalistico, poi, si colloca il sistema delle esimenti e, in particolare, la norma dell’art 54 del codice penale, secondo la quale non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalle necessità di salvare se o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. L’esimente viene tecnicamente chiamata “stato di necessità” e costituisce una generale causa che esclude la punibilità per tutte le fattispecie di rilevanza penale e quindi anche per quelle norme penali di cui ho appena parlato.

Qui, però, è necessario porre l’accento sul requisito dell’effettiva necessità e cioè dell’indispensabilità dell’intervento demolitorio al fine di salvaguardare la vita o l’integrità fisica delle persone: questa esigenza di salvaguardia deve essere concreta, specifica, fondata su riscontrabili elementi di fatto che non consentono né attese né alternative; non può all’evidenza, invece, costituire un pretesto per trovare delle scorciatoie rispetto alle vie burocratiche imposte dalla legge.

Fin qui abbiamo parlato dei beni vincolati; rapidamente restano da considerare quei complessi alberati che non sono protetti da particolari vincoli paesaggistici, quali possono essere generalmente i viali cittadini. In questi casi non pare vi siano difficoltà di sorta nel privilegiare in assoluto, anche in prospettiva e cioè laddove non vi sia situazione che possa sfociare immediatamente in un pericolo, l’esigenza di incolumità dei cittadini; salva la necessità di tener conto di quelle norme che sono contenute, ad esempio, nei piani regolatori comunali o nella legislazione regionale e che prevedono particolari procedure per tagli o abbattimenti di determinate essenze.

Va però chiarito che la violazione di queste norme (che non sono di tutela ambientale in senso stretto) e che devono comunque essere rispettate anche dai pubblici amministratori e dunque anche dall’ente che le norme stesse potrebbe avere emanato (si pensi al PRG) non appare presidiata da sanzioni di tipo penale ma potrebbe dare luogo, laddove la condotta si presenti connotata anche da colpa e cioè da negligenza o imperizia, a quella fattispecie di danno ambientale di cui più sopra si è detto. Né appaia peregrino prefigurare l’ipotesi che un Comune (che, per legge, è il soggetto danneggiato) possa agire per una condotta posta in essere da propri dipendenti o dai propri amministratori. Basti pensare, ad esempio, ai cambi di amministrazione in cui ciò che ieri era stato ordinato, un domani potrebbe essere visto come fonte di danno.

Mi rendo conto che questa eventualità è da considerarsi abbastanza remota ma va nondimeno esposta per dare un altro segno della complessità del problema generale.

Mi avvio rapidamente ad una sintesi conclusiva di queste mie note. Ci si chiede allora come debba comportarsi un buon amministratore od un bravo dirigente tecnico tanto sollecito nei confronti della tutela del bene ambiente ma anche attento alla prevenzione dei pericoli che possano scaturire dall’incuria nella manutenzione del verde pubblico.

Posso abbozzare qualche indicazione da poter affidare all’apprezzamento di tutti voi: in primo luogo posso dire che è senz’altro necessaria una costante, periodica ed attenta manutenzione delle proprietà arboree dell’ente, un controllo dell’attività conservativa che serva a rimuovere quelle situazioni di rischio che ragionevolmente si possono prevedere in relazione alla particolare situazione dei luoghi, alle condizioni di fruibilità o andamento meteorologico. Questa cautela potrà anche non far andare

esente l’ente dalla possibilità risarcitoria per il particolare rigore posto da norme quali l’art 2051 cod. civ. (si è visto che se non si riesce a provare il caso fortuito, se rimane ignota la causa dello schianto non viene meno la responsabilità); però penso che un’attenta manutenzione del patrimonio verde contribuisca senz’altro a ridurre la probabilità che l’ente stesso sia evocato in giudizio con successo.

In relazione ad ambienti tutelati, qualora tale attività manutentiva si prospetti come talmente intensa da comportare una modificazione sostanziale del complesso arboreo e dell’armonicità dello stesso in funzione della quale è intervenuta la tutela, è indispensabile che la manutenzione si fondi su un progetto specifico da sottoporre per l’eventuale approvazione; solo dopo che questa sia intervenuta si potrà procedere all’intervento, pena una possibile sanzione penale.

In relazione ad ambienti non tutelati sarà comunque necessario rispettare quelle norme e quelle procedure di rilevanza senz’altro inferiore rispetto a quelle precedenti ma ugualmente obbligatorie, pena una non impossibile responsabilità risarcitoria per danno ambientale.

Nel caso in cui vi sia un serio, concreto ed imminente pericolo per la pubblica incolumità che non consenta l’espletamento delle normali procedure è possibile ogni e più radicale intervento in forza di un ordinanza sindacale che escluderà ogni responsabilità penale oppure anche un intervento che prescinda da quell’ordinanza qualora sia ravvisabile l’imminente stato di necessità.

Mi rendo conto che sono regole facili da enucleare ma meno facili da mettere in pratica nella quotidiana attività dell’amministratore o del dirigente e non si può certamente avere la presunzione di offrire ricette che siano sempre e comunque valide. Mi basta qui aver offerto degli spunti di concreto orientamento in una fattispecie certamente complessa e avere prospettato un qualche elemento per dimostrare forse che ciò che sembra inconciliabile tale non è necessariamente nell’ottica di una buona e corretta amministrazione. Grazie

Dott. Giulio Deantoni